“Anche se appena nato lo avessero messo in un tempio, l’erede del seme guasto di uno come Huang Gua sarebbe comunque diventato un monaco dissoluto.”
Le Rane
di Mo Yan
Sapete, dal momento in cui veniamo al mondo sino a quello in cui lo lasciamo, portiamo tutti una scimmia sulla schiena. A volte è un fardello, altre una fedele compagna: si chiama cognome e liberarsene, quando è troppo rumorosa e desta interesse, può davvero rivelarsi complicato.
Se siete cresciuti in un paesino di provincia come il mio, sapete bene quanto possa diventare ingombrante, perché spesso quella scimmia è l’unica cosa di cui le persone hanno bisogno per inquadrarti, per definirti. Il resto – l’esperienza, la passione, l’ispirazione – finisce per dissolversi dinanzi al tuo patrimonio genetico: d’altronde non sei che l’eco delle generazioni che ti hanno preceduto, niente più di questo. Una mela che, da quell’albero, forse non è caduta nemmeno.
Certo, è istintivo immaginare che la personalità, il carattere, derivi in buona misura dalla qualità del contesto in cui si è formato, eppure di tanto in tanto, nelle piccole realtà, mi sembra ancora annidarsi la convinzione che l’indole sia un fattore ereditario. A metà tra leggenda e verità scientifica, questa linea di pensiero non tollera facilmente l’esistenza di mosche bianche: un bravissimo pittore è probabile venga fuori da una famiglia di artisti, un nipote assassino da un nonno criminale. E se vi dicessero che vostro padre era il soldato perfetto, potreste forse esentarvi dall’andare in missione?
Non so davvero da dove cominciare. Potrei dirvi che Metal Gear Solid è un videogame sviluppato da Konami per la prima PlayStation, pubblicato in Giappone nel 1998 e approdato in Europa l’anno successivo. Potrei aggiungere che fu uno dei primi titoli a proporre meccaniche stealth in ambienti di gioco tridimensionali, che lo fece in maniera così brillante da sdoganare un genere fino ad allora ritenuto di nicchia. Potrei parlarvi del director e producer Hideo Kojima, di come questo lavoro e i successivi lo abbiano consegnato all’olimpo degli autori videoludici, dove risiede ancora adesso. E tuttavia, nonostante gli sforzi, le poche righe a mia disposizione fallirebbero nel trasmettervi la grandezza di Metal Gear Solid: abbiamo a che fare con una delle più importanti medaglie al petto del videogioco; con un prodigioso matrimonio di gameplay e narrativa; con la scommessa di un creativo che, guardando al futuro, riuscì a rendere leggenda il proprio presente.
Solid Snake, soldato dalle incredibili capacità combattive e strategiche, viene inviato dal Pentagono presso l’immaginaria isola-fortezza di Shadow Moses, ove è in corso l’assedio di un corpo militare americano in rivolta – la FOXHOUND. Impadronitisi dell’arma nucleare chiamata Metal Gear Rex, che a Shadow Moses era custodita, i sovversivi chiedono al governo statunitense un miliardo di dollari e il corpo del famoso mercenario Big Boss, pena il bombardamento. Spetterà al nostro Solid sgominare l’organizzazione nemica e mettere in salvo la madrepatria, ma non sarà facile, perché a capo della FOXHOUND sembra esserci un altro invincibile guerriero: Liquid Snake, “l’uomo con il nostro stesso nome in codice”.
Attraverso il dramma bellico e gli scontri a mano armata, Hideo Kojima tesse una trama fatta di dolore e angoscia, i cui figuranti sono personaggi smarriti, peccatori che anelano all’espiazione, esseri umani alla costante ricerca dell’identità che la guerra ha loro sottratto. L’onore o i geni: cosa determina davvero il valore di un uomo? Questo, più di ogni altro, è l’interrogativo esplorato in Metal Gear Solid.
La nostra indagine comincia con Naomi Hunter, una delle collaboratrici di Solid Snake durante la missione anti-terrorista. Naomi è un’orfana che, pur di risalire alle proprie origini, ha dedicato la vita alla genetica, fino a farne un lavoro. Non si tratta solo di scoprire la verità sui propri genitori: l’ossessione esistenziale la divora al punto da convincerla che soltanto la scienza possa aiutarla a convivere con se stessa, a trovare uno scopo. Se le risposte non sono là fuori, pensa la donna, forse è perché si nascondono dentro di noi.
Alle stesse conclusioni di Naomi, più di un secolo prima del rilascio di Metal Gear Solid, era arrivato Francis Galton, famoso antropologo britannico considerato il padre della genetica comportamentale. Nel corso dei suoi studi, Galton aveva maturato un’idea cinica e suggestiva assieme – quella secondo cui, con buona pace delle dissertazioni filosofiche e spirituali intrattenute per secoli sulla natura umana, l’uomo non fosse che la mera somma dei suoi geni.
Se è scientificamente dimostrato che, oltre alle malformazioni fisiche, anche alcune patologie neurali – ad esempio il Parkinson o l’Alzheimer – si trasmettono per via ereditaria, allora è lecito chiedersi se non sia la nostra intera personalità a dipendere dal corpo piuttosto che dal vissuto. Potremmo quasi arrivare a supporre, come Francis Galton, che ogni comportamento umano – pensiero, azione o emozione che sia – derivi proprio, in un modo o nell’altro, dal codice genetico.
Nell’istante in cui Galton partorì questa teoria, per la scienza divenne doveroso approfondirla. Numerosi ricercatori, dunque, raccolsero l’ipotesi dell’antropologo e ne testarono la validità attraverso degli esperimenti: i più famosi sono quelli condotti sulle Drosophila melanogaster, ovvero i moscerini della frutta. In particolare, negli anni cinquanta, alcuni genetisti inserirono tali insetti all’interno di un labirinto inclinabile per studiarne le reazioni, e notarono che, mentre alcuni di essi tendevano a muoversi verso l’alto, altri strisciavano nella direzione opposta, assecondando la forza di gravità. Isolati i due gruppi, allora, gli scienziati li fecero proliferare, per appurare che anche le generazioni successive di moscerini adottassero la condotta delle precedenti. Il responso fu positivo. Non c’era dubbio: esisteva, perlomeno nel caso specifico, una qualche correlazione tra geni e comportamento. Pretendere tuttavia di estendere tale conclusione all’intero spettro delle condotte umane, come vorrebbe fare Naomi Hunter in Metal Gear Solid, sarebbe a dir poco folle.
Oltre a Naomi, anche il governo statunitense immaginato da Hideo Kojima mi pare condividere i postulati di Francis Galton e dei suoi successori. Allo scopo di aumentare la propria forza bellica, infatti, l’America di Metal Gear Solid ha condotto terapie genetiche sui militari in modo da renderli più svegli e performanti. Gli stessi Solid e Liquid Snake altro non sono che cloni di Big Boss – nella storia del gioco, il “miglior soldato del XX secolo” – nati da madre surrogata all’esito del progetto Les Enfantes Terribles, un esperimento mirato alla creazione di vere e proprie armi umane da sfruttare in battaglia.
Il chiaro assunto di partenza è che, lungi dall’essere la conseguenza di un duro addestramento, le capacità di Big Boss fossero congenite e, dunque, trasmissibili alla prole. Con Les Enfantes Terribles e i progetti sperimentali governativi, a ben vedere, Metal Gear Solid finisce per rappresentare al giocatore la deriva più estrema della genetica comportamentale, ovvero l’eugenetica, disciplina che si prefissa il miglioramento qualitativo della specie umana attraverso il controllo delle nascite e la sterilizzazione di “matti” e criminali. Se la condotta è determinata dai geni, pensava sempre Francis Galton, allora forse si può correggere la società favorendo la riproduzione degli individui virtuosi – riconosciuti secondo parametri etici o istituzionali – e impedendola a devianti, bisognosi e malati.
Quella che era partita come un’indagine scientifica divenne, per questa via, politica razziale e classista, con i casi più eclatanti nell’America di inizio Novecento, in cui Charles Davenport sosteneva l’inferiorità biologica dei poveri; e nella Germania nazista degli anni Trenta, persa nell’idolatria del purosangue nordico.
Tornando all’opera di Konami, la visione che, almeno in prima battuta, Metal Gear Solid sembra sposare è assolutamente determinista: se guerrieri invincibili “si nasce” e non “si diventa”, allora è più comodo investire nella clonazione dell’individuo superiore, piuttosto che lavorare al progresso spontaneo degli inferiori. Le cose però non sono sempre ciò che appaiono…
Il progetto Les Enfantes Terribles ha dato alla luce sia Liquid che Solid Snake, cionondimeno, secondo la narrativa di Metal Gear Solid, solo uno di loro può definirsi un esperimento riuscito, avendo in effetti ereditato i geni migliori di Big Boss. Quando Liquid, al termine dell’avventura, viene sconfitto dal nostro protagonista, perisce nella frustrazione, giacché convinto di essere il clone dalle capacità minori e di avere la disfatta scritta nel DNA. È tuttavia la scena post-credit a rivelarci, una volta per tutte, la verità sulla faccenda: tra i due, il clone inferiore altri non era che Solid Snake, il quale dunque è riuscito a prevalere sul “fratello”, geneticamente più vicino allo standard desiderato, solo grazie all’esperienza sviluppata in anni di servizio militare. “Sei tu, non i tuoi geni, a decidere il tuo destino”, recita uno slogan pubblicitario dell’opera di Hideo Kojima.
La storia non ha tributato alcun onore alle teorie di Francis Galton, anzi oggi l’immaginario collettivo interpreta l’eugenetica come mera appendice del delirio nazista. Del resto l’idea di un legame esclusivo tra corpo e condotta si presta a ben facili obiezioni, dato che la capacità di apprendimento rende l’uomo un’entità che si evolve assieme al mondo che la circonda. Perciò, più che il genoma, sono gli ambienti in cui si svolge la formazione – famiglia, amici, didattica, lavoro – a condizionare il nostro sviluppo caratteriale, come d’altronde attestato dalle scienze sociali. Eppure, in quel labirinto inclinabile, i moscerini della frutta continuano a reagire alla gravità alla stregua dei loro genitori…
Non credo nelle spiegazioni semplicistiche. Forse, al di là di fanatismi e forzature, l’affannosa ricerca di Naomi può regalare delle risposte; forse, seppur a livello microscopico, i geni influenzano davvero le nostre azioni. Ma, nel mio piccolo, penso che siamo ben più di messaggi infilati in una bottiglia dai nostri avi e tramandati ai posteri, che le possibilità offerte dal presente debbano essere liberate dalle ombre del passato. Che sia necessario, infine, smettere di concentrarsi sulla scimmia e iniziare a guardare negli occhi l’uomo che la trasporta.
Membakar – 11/10/2021
Un ringraziamento speciale a Damiano D’Agostino (damians.ndd su Instagram) per la revisione, le consultazioni e – non da ultimo – la disponibilità.

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