“Eppure il tempo soffiava; senza curarsi degli uomini passava su e giù per il mondo mortificando le cose belle; e nessuno riusciva a sfuggirgli, nemmeno i bambini appena nati, ancora sprovvisti di nome.”
Il deserto dei Tartari
di Dino Buzzati
Quello che dovete sapere, prima di ogni altra cosa, è che sono una persona molto disordinata. Non sciatta, dio me ne scampi, ma abbastanza caotica da ritrovarmi lo smartphone in frigorifero mentre cerco il latte. Soprattutto al mattino. Oh, se lo odio, il mattino.
Oggi da un cassetto è saltata fuori una foto. Non so come possa esserci finita, non la vedevo da anni. Succede così, a tradimento. Vai a cercare una penna buona, e quello che trovi sono un bimbo dagli occhiali storti e una donna segnata dal tempo, stretti in un abbraccio caldo come il mezzogiorno d’estate, che ti fissano da un polveroso rettangolo di plastica. Sembrano quasi felici, chiusi in quella realtà parallela. Sono immobili: lui vive una risata che non consumerà mai; lei, congelata a metà di una carezza, guarda in camera. Bel tentativo, nonna. So che pensavi a quando avrei tenuto tra le mani questa foto. Che volevi sostenere il mio sguardo. La vita è strana, davvero.
Che cos’è un’istantanea, se non un frammento rubato al passato per confortare il futuro?
Si potrebbe obiettare che la fotografia si sia ormai da lungo tempo affermata come arte, che sulle riviste o i giornali ricopra un ruolo informativo, che dall’affermazione dei social sia diventata se vogliamo anche una forma di condivisione, a volte esibizionismo. Ciò, tuttavia, non vale a negare la sua natura di memento – di ricordo.
È proprio di ricordi che, a mio parere, parla Life is Strange, avventura grafica del 2015 sviluppata da Dontnod e prodotta da Square Enix.
Il gioco segue la storia di Max Caulfield, studentessa della Blackwell Academy, nell’immaginaria cittadina statunitense di Arcadia Bay. La fotografia occupa un ruolo centrale nella vita di Max, la quale, introversa com’è, passa tutto il tempo libero tra musica e polaroid, al riparo dalle provocazioni delle compagne più popolari. Un giorno, nei bagni della scuola, la ragazza assiste all’omicidio della sua amica d’infanzia, Chloe Price, e, imponendo istintivamente la mano verso il corpo morente di lei, scopre di avere il potere di riavvolgere il tempo. Da questo punto in avanti il gioco si sviluppa in varie ramificazioni, che percorreremo operando delle scelte – con la possibilità, comunque, di tornare sui nostri passi utilizzando il rewind di Max, qualora non fossimo contenti della decisione presa. Per tutto il corso della narrazione, la vita di Chloe continuerà a esser messa a repentaglio, quasi fosse il fato a volere la sua dipartita: la protagonista si renderà presto conto che piegare il tessuto temporale al fine di salvare l’amica sta avendo delle conseguenze catastrofiche sia sul proprio corpo che sulla stessa Arcadia Bay.
Life is Strange ha numerosi livelli di lettura ed è capace di stimolare la riflessione su tematiche di forte attualità – una su tutte, l’eutanasia – ma oggi voglio proporvi la mia visione personale dell’avventura di Max, e parlare della cosiddetta adolescenza prolungata, o protratta.
Nel 1979 Peter Blos, psicopatologo tedesco, condusse degli studi sul passaggio dall’infanzia all’età adulta, e in essi riscontrò quanto, nel suo torno d’anni, si stessero diffondendo particolari forme di disadattamento adolescenziale che impedivano al ragazzo di transitare spontaneamente verso la maturità. In “L’adolescenza come fase di transizione: aspetti e problemi del suo sviluppo”, Blos parla di blocco evolutivo, di “una necessità interiore di mantenere aperta la crisi dell’adolescenza”: l’incapacità, in altre parole, di lasciare il passato alle spalle, di affrontare le asperità della vita e, infine, di crescere.
Lo psicologo Dan Kiley nel 1983 pervenne a un concetto molto simile, e lo chiamò neotenia psichica, o Sindrome di Peter Pan: trattasi, anche qui, dell’impossibilità di assumersi le responsabilità dell’età adulta, e della tendenza a rifugiarsi nella comfort zone della pubertà.
In fondo, non è esattamente la paura del futuro a muovere ogni riavvolgimento temporale della nostra Max Caulfield? Se accettiamo questa premessa, ecco che il legame della ragazza con la fotografia assume connotati molto evidenti: le polaroid sono momenti del passato che si è trascinata nel presente, sono l’oggetto su cui si concentra ogni volta che deve tornare indietro, sono la sua forza e al tempo stesso il suo freno. Un particolare che mi sembra confermare questo sottotesto è lo scatto con cui Max riesce a vincere il concorso Everyday Hero e a guadagnarsi l’esposizione in una mostra: nella foto la ragazza, che dà le spalle all’obiettivo, è concentrata a fissare il muro della sua stanza, ricoperto di polaroid. Il profilo di lei, sfocato, quasi si perde sulla parete, e riusciamo a intuire l’intensità del suo sguardo pur non potendolo vedere.
Max è totalmente incapace di agire sulla propria vita senza time travel, è fragile, irresoluta. Ha talento ma non vuole riconoscerselo, non riesce a impegnarsi. E le risulta impossibile accettare una realtà in cui la sua migliore amica non c’è più.
Anche Chloe Price – vera e propria co-protagonista del gioco – si trova in uno stato di adolescenza protratta, ma nel suo caso la condizione è scaturita dal lutto del padre, morto pochi anni prima dell’inizio della storia, e dalla misteriosa scomparsa di Rachel, coetanea con cui aveva molto legato. Quella di Chloe è una pubertà burrascosa, che si traduce nell’abbandono della scuola, nel rifiuto veemente del nuovo compagno della madre, e in generale in un portamento ribelle che le procura sempre guai.
Entrambe, Max e Chloe, rimpiangono il periodo in cui, da bimbe, andavano sull’altalena o giocavano ai pirati, e farebbero di tutto per tornare a quei giorni di sole.
Il giocatore riesce con facilità a calarsi nei panni delle due, ed è proprio questo il punto su cui voglio soffermarmi.
Blos e Kiley, con la teoria dell’adolescenza prolungata e quella della Sindrome di Peter Pan, hanno individuato delle vere e proprie psicopatologie che, come tali, dovrebbero rappresentare delle eccezioni alla regola, delle deviazioni rispetto al percorso standard dell’essere umano. Eppure non sono sicuro che oggi si possa continuare a considerarle un’anomalia, una rarità. Al contrario, basta guardarsi intorno per accorgersi di quanto sia diffuso, tra le nuove generazioni, un forte senso di smarrimento, che si accompagna al terrore dell’avvenire. Io penso che dipenda da come è andata evolvendosi la società: per i giovani oggigiorno l’occupazione e l’indipendenza economica sono una mera eventualità, un miraggio. Il principio della competizione ha trasformato il mercato del lavoro in un campo di battaglia tra curriculum professionali, cosa che se da un lato ha aumentato la qualità dei servizi, dall’altro ha condannato l’individuo a itinerari specializzanti sempre più lunghi, che offrono, ciononostante, ben poche garanzie. In questo modo tra fanciullezza ed età adulta si è venuta a frapporre una consistente parentesi formativa più concentrata sulla teoria che sulla pratica, sicché nel corso degli anni è facile per il ragazzo o la ragazza maturare incertezze, paure, dubbi. L’ingresso nella maturità, quando finalmente arriva, è sconcertante, e richiede una reinvenzione di pensiero, abitudini e linguaggio a cui, per paradosso, il giovane non è stato preparato.
La verità, vengo al sodo, è che forse oggi siamo un po’ tutti Peter Pan, incatenati da un’adolescenza che troppo a lungo abbiamo vissuto. L’adulto è solo un bimbo sperduto che ce l’ha fatta.
Trova perfetta contestualizzazione, secondo questa chiave di lettura, il ruolo che ai “grandi” è riservato in Life is Strange: le loro vite corrono di fianco a quelle dei ragazzi senza mai incrociarle per davvero. Gli adulti, nell’opera di Dontnod, non rappresentano una guida per i giovani, anzi sono l’esempio da non seguire. Lo vediamo nella madre di Chloe, che tende a mettere il nuovo partner prima della figlia; nel preside della scuola, corrotto e insofferente; per non parlare poi del professor Jefferson, l’insegnante di fotografia di Max, il quale si rivelerà addirittura un serial killer. Figure al limite, ambigue e inaffidabili. Nessuno vorrebbe crescere, nella prospettiva di diventare come loro.
È davvero necessario poi spezzare il ciclo, trovare il coraggio di lasciare il passato alle spalle, volare via dall’Isola-che-non-c’è? Nel finale di Life is Strange – che non vi rovino – la scelta sarà nostra, ma fuori dal gioco, ragazzi, non c’è che una strada da imboccare: quella della responsabilità. Sarebbe bello poter vivere in un limbo, fermi alla pagina preferita del nostro romanzo, ma una decisione simile avrebbe delle ricadute sociali troppo gravi per essere tollerabili. Quello di crescere non è solo un nostro diritto, anzi è più di ogni altra cosa un dovere nei confronti di chi ci circonda. È con la voglia di fare, non con la nostalgia, che cambieremo questo mondo.
E se avete bisogno di supporto psicologico, non esitate a chiederlo a chi di dovere. Ricorrere alla psicoterapia significa aprirsi al confronto e alla possibilità di miglioramento: deve essere motivo di vanto, non di vergogna.
Quindi mi dispiace, nonna, ma devo andare. Se potessi riavvolgere il tempo e tornare il bimbo pestifero che stringi tra le braccia in questa foto, probabilmente lo farei. Ma non posso.
Riporrò questo ricordo assieme agli altri, imparerò a essere più ordinato, prima che diventi un problema. E ogni tanto, solo ogni tanto, tornerò a salutarti, perché a volte guardarsi indietro è l’unico modo per andare avanti.
D’altronde mi stai osservando. E voglio darti un bello spettacolo.
Membakar – 13/03/2021

Lascia un commento